Di M. Noris
Nei primi anni del ‘900 il chimico e fisico Arrhenius, già premio Nobel, studiava l’incidenza della CO2 sul clima, sostenendo che la sua immissione per mano antropica avrebbe aumentato il cosiddetto effetto serra e calcolando che se la sua concentrazione fosse cresciuta del 50% avrebbe portato un aumento della temperatura di 4,1 °C.
L’attività umana, attraverso l’uso di combustibili fossili, produce CO2, la cui concentrazione nell’atmosfera ha raggiunto nell’ultimo secolo valori elevatissimi (circa 400 ppm, contro una media di 200-280 ppm pre-industriali). Contemporaneamente, si è registrato un costante aumento della temperatura terrestre.
Nel 1990 viene quindi fondato l’IPCC, foro scientifico facente capo all’ONU, allo scopo di valutare la letteratura scientifica e redigere dei reports da presentare alle istituzioni mondiali.
Tali report dipingono, attraverso scenari differenti, futuri drammatici e i principali governi, ad eccezione degli Usa, si accordano per limitare gradualmente le emissioni di CO2, sino ad arrivare al fatidico “impatto zero”, ossia cancellando la dipendenza dai combustibili fossili. Un progetto ambizioso, che per voce degli stessi governi non sarà possibile rispettare.
I sacrifici per attuare tale progetto sono infatti enormi nell’immediato ma, stando all’IPCC, le conseguenze di un suo fallimento sarebbero molto, molto più gravi nel lungo periodo.
Che succede a questo punto? Dal punto di vista pratico, quasi nulla. Inizia in compenso la guerra ideologica del climate change. Se da una parte l’IPCC prevede l’apocalisse, dall’altra troviamo scienziati che se ne prendono gioco, difendendo PIL, sviluppo economico e sostenendo la natura geologica o astronomica del cambiamento, se non negandolo del tutto. Personaggi del calibro di Happer o Moore, legati alle lobby da interessi privati e che sostengono che produrre CO2 faccia bene “in quanto nutrimento per le piante”, o come Tim Ball, che dopo aver mentito pure sul suo cv continua a negare che la CO2 sia un gas serra. E l’IPCC? Neppure questa organizzazione sembra completamente esente da ombre.
Il climate change, da argomento scientifico, diventa questione di portafogli e di fede, nella completa indifferenza del popolo.
In tale quadro patetico, una ragazzina di 15 anni affetta da pattern ossessivi inizia a manifestare per il futuro del pianeta e, nel giro di poco tempo, il climate change balza da trafiletto a margine ad articolo da prima pagina. E Greta Thunberg diventa improvvisamente icona dei movimenti attivisti.
Il riscaldamento globale è tema spinoso: ci suggerisce che il nostro stile di vita non sia sostenibile, ci impone dei sacrifici. A nessuno piace sentirsi dire di sbagliare. Ed ecco, come sempre, che la sete di conoscenza lascia il posto alla guerra ideologica. Bianco o nero, noi e voi. Compaiono post offensivi e minacce verso la ragazzina, si deride l’ignoranza degli studenti che manifestano per il clima (ma sarebbe ingenuo aspettarsi di meglio, considerati gli insegnamenti dei genitori). Si rilanciano articoli pseudo-scientifici senza neppure leggerne il contenuto o controllarne le fonti. Tutto, pur di denigrare la fazione avversaria, difendere il nostro ego e il nostro comfort. La civiltà della decadenza e dell’abuso.
Ci rimangono davvero solo 12 anni, prima di toccare il punto di non ritorno? Vi è davvero un interesse dietro l’improvviso interesse mediatico su Greta? Difficile dirlo, e non ha neppure molta importanza determinarlo.
La concentrazione di CO2 sta aumentando vertiginosamente, insieme al numero dei fenomeni climatici estremi. Sebbene sia ancora in fase di discussione, la temperatura globale sembra stia aumentando. I rischi di un eventuale surriscaldamento globale sono noti da decenni. Ed è certo che l’attività umana, attraverso la produzione di gas serra, stia contribuendo al processo. Cosa ancor più importante, non servono dati per notare come la nostra presenza stia uccidendo il pianeta. Che i report dell’IPCC siano affidabili o meno, è assolutamente necessario ridurre la dipendenza da combustibili fossili e l’emissione di anidride carbonica. E, soprattutto, urge una presa di coscienza, da parte di tutti. Perché non sono i governi ad inquinare, siamo NOI. Siamo NOI, come singoli, a dover cambiare, non ci saranno riforme ambientaliste (e impopolari) da parte del politicante di turno, se non saremo noi a invocarle. Il primo passo, come sempre, è informarsi.
Dimostrare che le previsioni apocalittiche dell’IPCC siano esagerate non può essere una scusa per continuare a contaminare il pianeta, perché le conseguenze saranno in ogni caso pesantissime. Greta è riuscita, per qualche giorno, a farci discutere. Non ha alcuna importanza chi sia, da cosa sia affetta, o da chi sia manovrata, perché presto scivolerà nel dimenticatoio. Come singoli, le nostre decisioni, qualunque esse siano, impatteranno sulle prossime generazioni.


Massimo Bernacconi é l’anima di Candidati Senza Voce, nonché l’elemento trainante…